P.N.

Il tema di questa ultima challenge del Raynor’s Hall mi ha messo molto in difficoltà. Nella mia testa era chiaro ciò che volevo trattare, non sapevo come. Il tema mi piace molto, volevo rendergli giustizia nel modo più appropriato. Mi direte voi quello che ne è uscito fuori 🙂 Non credo di aver rispettato appieno il tema, o almeno, penso che un elemento del tema sia trattato in modo troppo sottile.

Mi è difficile ricordare altro che non sia questo tempo presente. So solo che c’è qualcosa, una presenza opprimente, mi schiaccia il petto. Riesco a distinguere solo una pallida luminescenza nel buio e non saprei nemmeno dire se sono io ad aver perso il dono della vista. Il fantasma o il demone è sopra di me, sono certa riesca a volare nella stanza. Mi sforzo di ignorarlo, di reprimere lontano da me quell’angoscia che mi impedisce di respirare, ma la sensazione è troppo orribile. Un fastidioso formicolio avvolge tutto il mio corpo e ogni movimento mi costa una fatica immane. Persino respirare è faticoso e mi concentro solo su quello, se smetto di lottare smetto anche di vivere. Sento delle voci nella mia testa, mi dicono tutto quello che non vorrei sentirmi dire. Sono inutile, sono brutta, sono un fallimento. Sussurri dissonanti che si moltiplicano nella mia mente e sono insostenibili come quel respiro, a cui inutilmente continuo a legarmi, a lottare. Forse è in questi momenti che realizzo davvero quanto mi aggrappi al bisogno di vivere, di lottare anche quando tutto va contro ciò che vorrei.

Sono vecchia e inferma, la mia mente non più arzilla come un tempo. Lo so, me ne accorgo in qualsiasi goffaggine e qualsiasi esitazione. L’idea che io possa dimenticarmi tutto quello che so, tutti quelli che conosco… mi porta alla nausea. Vorrei scalciare via quella sensazione, lottare per rimanere giovane, così come combatto per il mio ultimo respiro. Nei miei peggiori incubo ricordo ancora quando mi vendettero un pianoforte, il proprietario aveva l’alzheimer e i suoi parenti volevano liberarsi dello strumento. Mi chiedo ancora se, quando lo hanno portato via, lui si sia ricordato solo del suo pianoforte. O se avesse un vuoto dentro di sé che non riusciva a colmare e non sapeva come colmarlo, non sapeva nemmeno il perché aveva un vuoto. Diventare così mi spaventava, preferirei mettere fine alla mia esistenza. Ma continuavo a respirare.

Potevano anche essere anni, quelli che trascorrevo lì, senza riuscire a muovermi. Potevo già non essere più proprietaria del mio stesso corpo senza che nemmeno lo sapessi. Un incidente, magari. In vita mia non mi sono rotta mai neanche un braccio, ma a una certa temo capiti a tutti. Il mio doveva essere bello grave. E la cosa mi irritava: odiavo prendere il controllo.

Provai a divincolarmi. Ogni arto era un sasso da spostare, ma cercavo di dimenarmi il più possibile. Tutto mi sembrava così lento e faticoso, ma non volevo arrendermi. Non mi importava più del demone, della vecchiaia, del respiro. Qualsiasi cosa fosse successo avevo abbastanza libertà di pensiero per farmi delle paranoie e se la mia mente poteva fare questo, potevo anche fare altro. Almeno provarci. Le voci iniziarono a svanire, attutite dalla forza di volontà. Ogni altra paura era assopita dall’ordine imperativo di muovermi e di riuscire a fare qualcosa.

Mi risvegliai, giovane, nella mia stanza. Era giorno.


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