Questa storia partecipa al Club di Aven. Il tema di questo racconto è “Stanza segreta” , scelto da Monique Namie.
Lo volevate un mio racconto scritto di getto, eh? No? Beh lo avrete lo stesso u.u
«Tu ti fidi di me?»
«Certo, ma…»
«Quindi non ti fidi».
«Non è… come pensi. Mi fido, fammi parlare. È che penso che noi amiamo le persone in un dato momento, fino al punto di perdere la testa. Magari il tempo fa subentrare qualcos’altro e le persone cambiano. Io potrei farlo e anche tu. Al punto che uno dei due non soddisfa più le esigenze dell’altro e potrebbe succedere qualcosa. Mi fido, ma non al punto di essere tanto sciocca da pensare che la mia fiducia sia fredda e immutabile».
«Promettimi ti fiderai, qualunque cosa succeda».
«No, Barbablù, non lo farò».
***
La casa in cui abitavamo non l’avevo mai amata. I muri erano alti e coperti di specchi, croci e cianfrusaglie. I mobili erano tutti antichi e di legno massiccio e contenuti in gran numero appesantivano l’ambiente. Il soggiorno era pieno di lampadari, tappeti, divani e suppellettili disgustosi, che prendevano solo polvere. Era una casa in affitto, quello che avevamo potuto permetterci per vivere insieme e l’avevamo presa. Al mio amore non importava, quando dicevo di avere i brividi in quella casa rideva, mi arruffava i capelli e mi chiamava sciocchina. Se insistevo nel mio presentimento mi abbracciava e la discussione finiva lì, spesso sfociava in altro e mi dimenticavo. Diceva che bastavo io a rischiarare l’ambiente, implicitamente voleva che anch’io mi sentissi rassicurata dalla sua presenza.
Lo ero, ma non mi bastava. Mi bastava rimanere sola in pochi minuti che mi sentivo afferrare da qualcosa, spiata da un altro angolo e scricchiolii sordidi iniziavano a squarciarmi la testa. A volte nei muri sentivo anche un ronzio petulante e voltandomi temevo sempre di trovare qualche vespa o un calabrone. E quella poca serenità incrinava il rapporto. Ero spesso nervosa, tesa e avevamo perso l’abitudine di comunicare. Ancora provavo intense emozioni nel fare sesso e non solo perché mi piacesse il suo corpo, ma anche la sua mente, il suo carattere… tutto ciò che lo animava. Ma solo lì, poi perdevo tutto il gusto di ciò che era. Quella situazione non era giusta né per lui né per me.
Ero in cucina quando tutto degenerò. La cucina poi era un altro spazio interessante. A una cucina relativamente più moderna ne si affiancava una talmente antica da farmi venire i brividi e quando ero sola la coprivo con un telo, scappando come se avessi intrappolato una bestia feroce e temevo si liberasse. Sopra di essa c’era un buco nel muro. Un buco che dava su una stanza chiusa a chiave.
Barbablù aveva detto che la proprietaria aveva insistito che la porta rimanesse chiusa. Il nostro primo pensiero era che ci fosse nascosto un cadavere. Quando mi mettevo ai fornelli e magari bruciavo qualcosa, Barbablù sorrideva, sventolava una mano e mi diceva «Qui c’è puzza di cadavere».
Uno sgabuzzino delle scope, cosa poteva mai esserci dentro? A parte le continue insinuazioni del cadavere, comunque mi dava fastidio quello spazio. La casa era nostra, anche se in affitto, era giusto che ogni singolo spazio ci appartenesse. La curiosità mi rodeva e accresceva la misteriosità di quell’ambiente che consideravo malsano. Per me e per lui.
Uscii dalla cucina e imboccai il corridoio. Sentii un tonfo alle mie spalle, poi il rapido aprirsi e chiudersi di una porta. Mi voltai tanto per vedere Barbablù che mi si avvicinava in punta di piedi.
«Ma… ma da dove sei arrivato?»
«Ero in cucina, mi sono accorto che non mi avevi dato attenzione. Ero sul balconcino e speravo di farti un agguato a sorpresa».
«Per farmi morire di paura forse?»
Mi accarezzò una guancia, passò la mano tra i capelli e mi spinse dolcemente a baciarlo. Avevo gli occhi spalancati e trattenni appena del disgusto quando vidi che la porta della cucina era aperta e che l’unica porta rimasta era quella che mi era davanti. Quella della stanza segreta.
Da quella sensazione di disgusto non mi ripresi più. Mi convinsi che Barbablù quando mi aveva baciato con l’altra mano si era assicurato di mettere una chiave nelle tasche e quando, accarezzandogli i fianchi, avevo provato a indagare me lo aveva impedito in un modo o in un altro. Iniziai a notare che la casa non era grande ma il mio amore, potevo ancora definirlo tale?, aveva l’incredibile capacità di sparire sempre e sbucarmi alle spalle. Lo avevo preso sempre per un suo vizio caratteriale, quello di sorprendermi, farmi paura e poi abbandonarmi tra le sue braccia. Ora non lo credevo più. Ero guardinga come un gatto selvatico e avevo preso a osservarlo con più attenzione e studiare ogni suo atteggiamento. Lui non sembrava sconvolto, né dava peso a questa mia preoccupazione. Non sapevo come prenderla. Da un lato considerava come se tutto fosse normale, non lo era. Dall’altro non aveva sensi di colpa come avrebbe dovuto avere. A cosa dovevo credere?
«Amore, devo andare a fare una commissione. Ti raggiungo dopo» mi baciò sulla fronte «Non ti preoccupare, il cadavere è morto: non potrà farti del male».
Rimasi ferma al mio posto fino a quando non sentii la porta dell’ingresso chiudersi. Non avevo più nemmeno paura di quella casa, l’incantesimo si era compito: la mia anima era stata avvelenata. Mi alzai senza sapere bene cosa stessi facendo e chiamai la padrona di casa.
«Pronto! Ah siete voi! I piccioncini hanno qualche problema a casa? Una perdita d’acqua magari?»
La chiacchierata si profuse in convenevoli, fino a quando non pensai che fosse arrivato il momento di partire in offensiva.
«Senta, a proposito della stanza che lascia chiusa a chiave…»
«Quale stanza? Tutte le stanze della casa sono a vostra disposizione. Se parli di quel gabbiotto del giardino sono spiacente, ma non è di mia proprietà».
Rimasi a bocca asciutta ma avevo abbastanza presenza di spirito per scusarmi, cambiare argomento, resistere ad altre due o tre domande invasive, salutare e riagganciare. Tutto questo mentre avevo continuato a fissare quella dannata porta.
Con quello sguardo feroce mi avvicinai. Avevo distolto appena lo sguardo per cercare su internet un tutorial per scassinare una porta. Non avevo mai fatto una ricerca del genere ma internet non mi avrebbe tradito.
La porta si aprì. Era il momento di disseppellire i cadaveri di mio marito.
Alice Jane Raynor’s “Barbablù” is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License
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Una storia un po’ inquietante. Dalle prime righe mi aspettavo qualcosa di romantico, ma poi l’amore iniziale è degenerato e la fiducia è andata persa. Mi piace quando i racconti si fanno tragici. Il finale lascia la curiosità di sapere. Per essere un racconto scritto di getto, è venuto bene. Brava! 🙂
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Grazie! L’effetto dovrebbe essere quello infatti. Spero infatti di riprenderlo presto come racconto perché ho molte idee per ampliarlo, anche se la linea dovrebbe rimanere questa
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e no, non puoi lasciarmi con questa atroce curiosità ^_^
Complimenti, davvero molto bello.
Spero lo continuerai e che io non perderò l’articolo 😉
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Grazie ^^
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