Questa storia partecipa al Club di Aven. Il tema di questo racconto è “La mia solitudine mi sta uccidendo” , scelto da Aven.
Sempre di getto, sempre di corsa. Mi sento un po’ il bianconiglio.
Quella solitudine mi avrebbe ucciso.
Non mi riusciva di prendere sonno. Mi rigiravo, cercavo di sotterrarmi nelle coperte ma niente. Avevo anche provato a chiudere gli occhi e a immaginare di scendere una scala a spirale infinita. Niente.
Ero sola, completamente. Non era mai stato un particolare problema per me. Non che potessi vantarmi di avere il privilegio di molti contatti umani.
Eppure adesso, adesso che avevo potuto stringere qualche amicizia, mi mancavano come non mai. Non mi avevano del tutto abbandonato. Non era questo il problema. È che a un tratto le nostre vite avevano percorso ognuno la propria strada e ci eravamo trovati separati dal destino. Mi chiedevo perché questo fosse così crudele nei miei confronti. Perché mi aveva regalato qualcosa se poi me l’aveva sottratta? Almeno prima versavo in quella innocenza dell’incoscienza.
Sprimacciai il cuscino e ritornai a poggiare la testa. Quei pensieri e quei sentimenti non mi lasciavano. Speravo invano che con quei gesti li avrei scacciati come si può scacciare una mosca. Non che avessi proprio un buon rapporto con il sonno ma ogni volta non mi rassegnavo e la stanchezza, che si protraeva dalla notte prima, mi trascinava in uno stato agitato e nervoso che cercavo di sfogare come peggio mi riusciva.
Accesi il telefono. Dovevo togliermi questa brutta abitudine di afferrare il cellulare non appena qualcosa non andasse e cercare in quello conforto e distrazione dai miei pensieri. A volte usavo anche la musica ma non potevo sfuggire ai miei malori semplicemente evitandoli. Non era giusto nei confronti soprattutto di me stessa.
La mia paura era quella di essere dimenticata, di uscire per sempre dai cuori dei miei amici prima che potessi fare qualcosa per cambiare rotta. E forse mi sbagliavo, perché in questo modo mi dimostravo non tanto insicura, quello non avevo paura di dimostrarlo, quanto appiccicosa e inopportuna nei loro progetti. Sapevo che questo momento sarebbe venuto, ora era arrivato.
Aprii in successione tutta una serie di social. Senza decidermi a mandare un messaggio ai diretti interessati. Avevo paura che mostrando il mio affetto avrebbero potuto rispondermi male. E io intanto morivo in quella solitudine che mi divorava. Era una voragine in cui non potevo far altro che essere risucchiata, solo che avevo ben i mezzi per uscire. Se avessi voluto trovare un’altra persona nella mia vita avrei anche potuto uscire, parlare con qualcuno e prima o poi questa persona sarebbe sbucata fuori. Nonostante la mia asocialità siamo così tanti a questo mondo che sicuramente sarei riuscita a trovare un amico in più.
Aprii la chat. Rilessi gli sporadici messaggi che no, non mi bastavano. E forse era questa mia insaziabilità a costituire il problema della mia infelicità. Forse, realizzai, non erano gli altri a rendermi infelice ma ero io stessa artefice delle mie disgrazie. Inviai un cuoricino. Un gesto semplice, che avevo fatto tante volte ma che ora acquistava tutt’altro senso per me. Rimasi in attesa, pur sapendo che probabilmente a quell’ora della notte non mi avrebbe mai risposto.
Mi sbagliavo. Dopo poco mi rispose con un altro cuoricino e gli spettri che fino a quel momento mi avevo assillata, sparirono.
Alice Jane Raynor’s “Non mi riusciva di prendere sonno” is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License
Rispondi